Aspetti della poetica neoclassica nell’ultimo Settecento (1953)

Aspetti della poetica neoclassica nell’ultimo Settecento, I, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 57°, serie VII, n. 3, Genova, luglio-settembre 1953, continuazione e fine ivi, a. 58°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1954, poi in W. Binni, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

ASPETTI DELLA POETICA NEOCLASSICA NELL’ULTIMO SETTECENTO

Come verso il ’70 le raccolte poetiche abbondavano di elegie malinconiche, di imitazioni younghiane, ossianesche, grayane, cosí verso la fine del secolo, sulla base della reazione al preromanticismo straniero, le odicine savioliane ed «emiliane» si alternano con un piú preciso gusto di decorazione preziosa (anche se a volte l’orazianesimo invita a sottili meditazioni morali, come nel caso del Cassoli), a solenni odi saffiche e pindariche, a sequenze di sciolti sentenziosi e descrittivi. La base eclettica mantiene sempre una certa apertura a motivi preromantici usati in forme coerenti per quanto educate e alleggerite, come nel primo eclettismo arcadico ai sonetti petrarcheschi per soggetti amorosi si alternavano odi solenni per celebrazioni storiche o elegie pastorali e ditirambi scherzosi per le adunanze e le cerimonie della società arcadica. L’eclettismo riduce spesso preromanticismo e neoclassicismo a «mode» coesistenti, a forme fungibili in diverse occasioni, a pretesto di bravura e versatilità e, piú in profondo se si vuole, a diversi strumenti espressivi amati come possibilità di un mondo di sentimento ricco e vario anche se mancante di unitaria intimità.

Si può dire comunque che in genere il turbamento preromantico, cosí essenziale nei migliori come arricchimento e sollecitazione del loro gusto sensibile e mobile[1], diventa, nella maggior parte di questi eclettici, piú superficiale e provvisorio (anche se culturalmente sempre significativo) di fronte all’adesione compiaciuta al mondo dei bei miti, al culto della bellezza ideale, e che la loro coscienza artistica è fondamentalmente neoclassica, come è neoclassica la loro aspirazione ad uno «stile», in cui a un certo punto di maggiore maturità essi tendono a risolvere – al di là della coesistenza eclettica – anche i loro fermenti preromantici. E cosí avverrà per lo stesso motivo cimiteriale che dalle cupe e disadorne immagini delle tombe senza nome, della fossa delle Notti e dell’Ossian passerà, attraverso i suggerimenti delle figure del Winckelmann e delle fantastiche immagini piranesiane, alle candide, eleganti figurazioni artistiche e letterarie di urne, tempietti, stele, colonne, busti e bassorilievi in profumati giardini come nei Sepolcri foscoliani o nei volumi del Silva. Ma se questa trasformazione cosí essenziale e in direzione di un romanticismo neoclassico avverrà soprattutto alla fine del secolo e nell’epoca napoleonica, già negli ultimi decenni del secolo (nei larghi termini di approssimazione in cui si muove inevitabilmente una simile distinzione di fasi vicine ed intrecciate) tale tendenza si precisa dentro il piú generico eclettismo, tipico ad esempio di quella significativa raccolta che fu, tra il 1793 e il ’99, l’Anno poetico curato dal gozziano Angelo Dalmistro.

Nell’eclettismo di quegli anni, particolarmente visibile nella letteratura di scuola gozziana – aperta da una curiosità e da una considerazione benevola per ogni tentativo poetico –, di fronte a sonetti petrarchisti (di un petrarchismo nuovo e sentimentale che bene accompagna le forme piú originali del sonettismo alfieriano e prelude a quelle del Foscolo), a terzine elegiache e a canzonette fra vittorelliane e bertoliane (ultima voce di Arcadia venata dalla nuova sensibilità e rafforzata da un uso degli esempi di struttura classicistica), si incontrano riprese piú chiare di forme savioliane.

Strigne l’eburneo pettine

infra le bianche dita,

e sorridendo a Licida

l’umile sedia addita...[2]

Uscita fuor de l’umide

vaste cimmerie grotte,

cinta il crin di papaveri,

fra noi scendea la notte...[3]

E, specie nel secondo volume, si nota un deciso affiorare di saffiche o di sciolti pariniani (ma si noti la presenza di questi versi prima dell’Ode alla Musa che indicano un’azione stimolatrice del Parini in coerenza con le nuove tendenze della poetica neoclassica anche prima del suo esempio piú significativo e preciso), come gli sciolti A Calliope di Giuseppe Fossati

(Sai tu, dicesti, chi il difficil vanto

può di poeta meritar? Colui,

ch’emulator degli apellei colori

ne’ propri carmi i vividi fantasmi

col variato musical concento

a l’orecchio e al pensier orna e dipinge,

né pago sol d’inutile diletto

giova piacendo, e può destar nei cuori

tenerezza, dolor, gioia, pietade.

Solo quest’è poeta, e solo a lui

Febo dà di poeta e spirto e nome),[4]

o come la saffica del Cavriani Alla pace:

Te benedice il mercator, che al lido

salvo ritorna da lontan terreno,

te la consorte, che con lieto grido

lo stringe al seno:

te loda il ricco, che dovizie aduna,

e la pietosa man poi non asconde,

e pago il poverel di sua fortuna

a lui risponde.

Da te il marito, che il pudico letto

brama, l’implora, e il tuo favore ottiene;

da te la sposa spera eterno affetto

di casto Imene.[5]

E accanto al rapido ritmo, secco e brillante dei savioliani (linea essenziale di classicismo rococò che, con il suo gusto di figurine sommarie e perspicue, si inserisce e sopravvive in pieno neoclassicismo fino a risolversi totalmente nella superiore esperienza dell’Ode a Luigia Pallavicini del Foscolo), accanto alla cadenza pacata e nobilmente sorridente di saggezza e di compostezza etica ed estetica dei pariniani, si afferma il tono scialbo e gessoso di tanto neoclassicismo decorativo e meditativo, con le sue linee allungate e blande che troveranno la loro utilizzazione superiore nel Monti fino alla sua Feroniade e alla poesia Per l’onomastico di Teresa Pikler. Come si può sentire in una canzone del Cerretti

(Non sempre è mal quel che ne affligge e duole,

anzi talvolta son nunzie le pene

di non sognato bene;

dopo la pioggia al fin risplende il sole:

tutto tempera il ciel con arti immote,

e a l’uom ne son le arcane leggi ignote.

[...]

Donna gentil che fosti un giorno oggetto

de le tenere mie cure soavi,

e a cui pensier piú gravi

ora mi stringon con mutato affetto,

che sin al dí de l’ultima partita,

memoria mi sarai dolce e gradita...),[6]

o come in una «funeraria» del Pellegrini in morte di Amaritte[7] che, priva della cupezza, dell’orrore che aveva fin allora accompagnato questi componimenti di chiara origine preromantica, indica quel tono di elegia solenne e tenera, quel candore marmoreo e nostalgico, che rappresentano una chiara affermazione di neoclassicismo sorto sul languore insito nella stessa «grazia» winckelmanniana e letterariamente preparato da un’utilizzazione misurata di tenerezza preromantica:

Era la giovinetta

qual fior fresco, che al maggio

d’odorati color piú splende adorno.

Falda di neve schietta

cadeale in fronte; e il raggio

de’ begli occhi accendea piú chiaro il giorno.[8]

E nell’ultimo volumetto del ’99, se si esclude un timido sonetto del Benzon Alla tomba di Werther, la prevalenza assoluta è di odi, canzoni, sciolti di netta intonazione neoclassica. E si può meglio confermare in questa maggiore omogeneità (cosí in una ode di Giovanni Paradisi, in una del Giovio, negli sciolti della Grismondi o nelle quartine del Mazza) che le forme savioliane sono diminuite, cosí come i componimenti didascalici di sapore illuministico e che, in una cura piú generale della lingua poetica, si precisa la fase di un neoclassicismo piú solenne ed eloquente intorno al motivo del poeta-sacerdote che congloba spunti chiaramente preromantici (il poeta-vate, il poeta-genio) con il rifluire di idee graviniane rinforzate dal pindarismo e dall’orazianesimo tanto diffusi nel secolo.

Sono quei «verseggiatori del grave e del sublime» di cui parla il Croce rilevandone l’inconsistenza poetica e le velleità megalomani. E certamente verseggiatori come il Mazza, il Rezzonico, i Paradisi, il Cerretti, lo stesso Bondi[9] (il «Delille italiano», come il francese, traduttore e imitatore di Virgilio, descrittore didascalico senza il vero interesse divulgativo dei didascalici illuministici), vanno ridotti in un esame di valore poetico a scialbe figure, ad intenzioni non realizzate ricordate dal Croce proprio in quanto, staccandosi dalle forme piú frivole e galanti e variamente giocose della «letteratura settecentesca in versi», dove questa è, «a suo modo, sincera»[10], questi scrittori sembrano toccare quella serietà di sentimenti ed idee che sarebbe mancata in genere alla poesia settecentesca tutta, inscritta nel cerchio arcadico, tutta mancante di un accento essenziale di «malinconia», mentre poi facilmente rivelano la vuotezza delle loro pretese, l’arbitrarietà della loro gravità e del loro sublime[11].

Tuttavia quando, come qui si fa, si consideri la poetica come base entro cui si sviluppa – là dove c’è! – la poesia autentica (e in questo caso la poesia foscoliana, che è lo splendido fiore nato nel variopinto prato di erbacce, papaveri e modesti fiori di campo della letteratura dell’ultimo Settecento preromantico e neoclassico), non certo per diminuire la novità di questa, ma proprio per meglio comprenderne la formazione e il distacco su di uno sfondo di cui spesso le linee piú vaghe e lunghe sono proiettate e raccorciate, rappresentate nel ritratto vivissimo del vero poeta, non si possono far cadere questi scrittori nel dimenticatoio o nel semplice elenco a piè di pagina, perché essi pur vivono una loro vita di indicazione di poetica, una loro tensione alla poesia, e rappresentano una zona di esercizio e di discussioni a cui non fu chiuso l’orecchio del Foscolo e che anzi meglio ci fanno conoscere atteggiamenti e posizioni di quel poeta cosí fortemente impegnato nel suo tempo e nella letteratura del suo tempo sia pur discutendola, utilizzandola e superandola con superba, prepotente originalità.

Mi servii già di alcuni di questi autori (Cerretti, Mazza) nel mio Preromanticismo italiano[12] a mostrare come pure in questi neoclassici non mancassero stimoli essenzialmente preromantici: motivo del sublime, del nuovo sentimento pastorale di tipo gessneriano ecc. Ma se, diversamente dalla linea savioliana-pariniana, in questi «scrittori eclettici» è evidente la presenza stimolatrice di fermenti preromantici, va precisato che, nella loro esperienza varia e poco incisiva, l’assimilazione di tali fermenti fu tanto piú facile proprio perché in loro aveva agito il neoclassicismo escludendo l’impeto delle «malnate fonti», ma insieme offrendo l’innesto idillico-arcadico (cosí forte anche nelle traduzioni del Pagnini) e dei motivi di retorica neoclassica (grazia, armonia, sublime) non sempre eterogenei, anche se d’una diversa accentuazione, rispetto a motivi preromantici piú piegati al rilievo sentimentale nei suoi poli di orrore e di languore.

La retorica neoclassica offriva essa stessa temi di poesia (grazia, sublime, armonia) ed in tal senso va anche considerata la produzione di questi anni, fra lo stimolo di entusiasmo preromantico (genio, vaticinio, confusa grandiosità a vuoto che si riflette in condizione personalmente giustificata nelle Odi del conio dell’autore del giovane Foscolo) e, in poesie piú omogenee, anche di motivi neoclassici. E in tal senso persino il linguaggio di questi verseggiatori è spesso un’applicazione di principi della poetica neoclassica implicita in Winckelmann o in Mengs, anche se spesso l’applicazione di termini musicali può far pensare ad un distacco dell’essenziale modello figurativo, come nel Mazza.

Ma prima di parlare del Mazza e del Rezzonico, occorre ripercorrere brevemente le indicazioni che ci vengono da una lettura rinnovata dei saviolani ed emiliani di cui si occupò il Carducci nel suo saggio fondamentale sulla poesia classica del secondo Settecento[13] raggruppando (mentre poneva in secondo piano gli elementi preromantici per lui meno interessanti) i piccoli poeti emiliani e gli altri classicisti prima del Monti, in una lata scuola all’insegna dell’«immenso di Venosa cantor» (anche se poi Pindaro, elegiaci e piú tardi ancora Virgilio ed Omero – che sono piuttosto sull’onda lunga del neoclassicismo di primo Ottocento – vengono accanto ad Orazio ad alimentare e insieme ad una piú decisa presenza della teoria e delle suggestioni del neoclassicismo figurativo). E il Momigliano, nel suo saggio citato su Gusto neoclassico e poesia neoclassica, aveva raccolto intorno all’esempio iniziatore del Savioli un gruppo di lirici neoclassici[14] prima del Monti, caratterizzati appunto dalla vicinanza alle caratteristiche forme savioliane.

Si è notato già, a proposito del Savioli e della sua relazione possibile con le stesse Stampe ercolanensi e con Winckelmann, come effettivamente la poetica del poeta degli Amori fosse piuttuttosto corrispondente ad un compendioso classicismo rococò e sensistico (tecnica di cammei), che non al vero neoclassicismo che fa sentire invece la sua presenza stimolatrice nel Parini delle odi della maturità. Occorrerà dunque precisare che negli ultimi decenni del Settecento, mentre si assiste al diffondersi in campo letterario della teoria neoclassica (favorita evidentemente dal precedente classicismo arcadico e illuministico e proprio dall’esempio piú vicino degli Amori[15]) e ad una reazione al preromanticismo meno mediabile classicisticamente, nella pratica poetica, accanto alla continuazione di forme savioliane si assiste allo sviluppo di poemetti didascalici sempre piú carichi di mitologia, di sermoni ed epistole sempre piú «decorose» e solenni. E cosí, accanto alla maniera preromantica che trova le sue espressioni piú interessanti dell’epoca nelle Prose e poesie campestri del Pindemonte, e che costituisce indubbiamente la tentazione e il fascino piú vivo per gli stessi poeti che ecletticamente raccolgono esperienze preromantiche e neoclassiche, troviamo in una generale «scuola lombarda» (emiliana e milanese) espressioni di poesia classicistica che continuano le forme savioliane rafforzandole con un’interpretazione del loro valore sempre piú chiaramente neoclassico, ed espressioni piú direttamente legate ai principi neoclassici platonizzanti, resi (e non occorrerà notare la estrema letterarietà di questa poesia di riflesso critico) motivi ispiratori: armonia, kalokagathia, sublime, serenità. E si può dire che la linea savioliana-emiliana appare piú compatta, pur nei margini di eclettismo che crescono nei suoi esponenti piú avanzati nel secolo (meno in Cassoli, piú in Cerretti e Paradisi), e piú fedele all’orazianesimo e alla cura preziosa della figurina mitica, alla concisione evidente (appoggiata al piccolo mondo elegante ed edonistico che si biforca dall’esigenza piú vasta, illuministica di un Parini) in cui si accentua, rispetto al Savioli, l’amore della bella incisione piú distaccata dal gusto di società e di funzione galante in quella cosí forte. Mentre è soprattutto in altri poeti come Mazza e Rezzonico, piú eclettici e riecheggianti la varietà frugoniana (loro limite e loro prima, equivoca base di apertura), che il neoclassicismo appare piú presente con le sue suggestioni di bellezza ideale, di «verità-bellezza», di armonia.

Duplicità di linee (la prima piú antica pur nella sua lunga continuità) localizzate persino nella «oraziana» Modena e nella frugoniana e poi «neoclassica Parma», secondo la contrapposizione del Cerretti che in una lettera a Giovanni Paradisi (27 marzo 1787)[16] scriveva: «Parma vi porgerà esempi pericolosi e seducenti consigli. Modena che vi ama e che zelerà sempre la vostra gloria, vi terrà un linguaggio e vi porgerà modelli ben differenti». Nella generale scuola «lombarda» contrapposta al «facilismo meridionale» rimasto alla pura imitazione metastasiana, si potevano cosí distinguere una linea classicistica piú tenacemente fedele ad un tipo di classicismo savioliano e cassoliano, pauroso di ogni sonorità frugoniana e diffidente delle forme eclettiche di un Mazza e di un Rezzonico che potevano, pur su spunti di retorica pindareggiante e platonizzante, essere sembrate anche un ritorno di grandiosità barocca[17], e una linea pure classicistica ed anzi piú largamente irrorata dagli ideali del winckelmannismo, tesa a tradurli in ricerche metriche e in espressioni magnanime di temi di didascalismo mitico, grandioso e nobile, di kalokagathia, di vaticinio civilizzatore.

Distinzione in realtà non sempre ferma e sicura, come del resto la distinzione negli stessi autori di moda preromantica e moda neoclassica non va intesa come rigida separazione, quando si pensi che lo stesso Cerretti indulge poi ad esaltazioni del patetico sublime, della sensibilità sentimentale – come nell’indicazione di indubbie preferenze poetiche nella sua lettera al Bentivoglio di Aragona (22 maggio 1792)[18] – e che lo stesso Cerretti nello sviluppo della sua carriera poetica poté giustamente essere incluso dal Croce fra quei «verseggiatori del grave e del sublime» per i suoi inni di vate borioso e moraleggiante, in cui si associava ai vanti dei vati parmensi, anche se in lui si può notare, in questo caso, uno sviluppo fedele di orazianesimo piú che l’adesione ai motivi piú tipici e «greci» di quegli altri.

Perché nell’eclettismo neoclassico, e negli scambi di binario che a volte permettono in casi estremi persino contaminazioni dei «lombardi» con lo stesso aborrito «facilismo», va tuttavia ribadita questa generale distinzione: la linea savioliana è piú «antica» e risente delle caratteristiche del gusto classicistico sensistico, dell’esempio ovidiano-oraziano, della tecnica di concisione, di figuratività da pietra incisa, del sostanziale edonismo da cui fu motivata, anche se spesso orazianamente ricerca motivi di dignità morale, di orgoglio stoico fino ad utilizzazioni «rivoluzionarie repubblicane». La linea piú confusa e slabbrata dei neoclassici non esclusivamente savioliani (e che pure utilizzano spesso la esperienza savioliana) nei suoi interessi piú vari accoglie piú decisamente l’influenza winckelmanniana, tanto da applicarne gli ideali trasformandoli in una propria tematica e utilizzando insieme le nuove traduzioni neoclassiche, come i piú decisi stimoli del pensiero graviniano con echi confusi di vichianesimo[19].

Ma, come dicevamo, anche nella linea savioliana si deve osservare uno sviluppo piú chiaramente neoclassico. E cosí nello stesso Cerretti si può notare, accanto a forme addirittura di calco degli Amori nella ricerca del rilievo sensibile eletto e malizioso

(venni e su l’orme doppie

de’ tepidi origlieri

vidi che inferma e languida

al mio rival non eri)[20]

e nel solito uso della clausola mitica

(Casta fu Cintia e un semplice

pastor del Latmo amò),[21]

un recupero cauto di canto negli esiti di certe strofe e una maggiore distensione di tipo pariniano neoclassico dentro la musica di forme brevi e preziose

(Me pur d’agi e di gloria

non fêr grandi avi erede;

ma schietto cor, ma candidi

costumi e intatta fede...)[22]

in corrispondenza alla notata accentuazione morale che va prevalendo anche nei savioliani attraverso l’influsso pariniano e nella esigenza neoclassica di «buono e bello» che si associa al piú istintivo motivo edonistico. In tal senso, nella stessa linea e in una comune ascendenza oraziana (e di Orazio fu buon traduttore nel 1786), il Cassoli riprende, piú che il brillante e il sale del suo autore, un tono pacato di modesta saggezza, di virtú rivissuta in un velo di antichità, sognata nella sua perfezione affascinante e lontana, in cui l’incisività savioliana perde il suo rapido taglio per una lucentezza piú scialba e per un passo piú trasognato e lento cui si adibiscono altre soluzioni metriche:

Io, le noiose ore e il timor del peggio

ad ingannar, tocco talor mia lira

che virtú bella inspira,

e con Flacco e Maron Tivol passeggio,

Troia, l’Eliso, e lieta

nel respirar quell’aura io son poeta.[23]

Dove si reperisce anche un tipico motivo neoclassico: l’illusione, qui in verità cosí modesta ed ingenua, di raggiungere la condizione poetica colla semplice fantasticheria dei tempi classici, mediante la lettura e l’imitazione dei poeti classici.

Sogni mediocri e letterari che prendono il posto dell’animazione galante savioliana, come all’edonismo brillante, nel permanere dell’essenziale linguaggio mitologico-figurativo, si sostituisce, in una tematica nel Cassoli specialmente smorzata e pesante (la poesia immortalatrice e civilizzatrice, la quiete dell’anima virtuosa e poetica, l’ammirazione della bellezza ideale: bellezza e verità[24]), una modesta, ma sincera calma contemplativa ben corrispondente culturalmente alla presenza della stille Einfalt se non della edle Grösse, all’influenza, in questo milieu oraziano-savioliano, di piú chiari motivi neoclassici.

La stilizzazione savioliana viene come piú allentata e, accanto alle strofette e ai piccoli quadretti mitici, il Cassoli presenta sequenze meditative, come la Solitudine piena di echi virgiliani, di vicinanze pariniane, significativa nel suo lento passo per l’affermarsi nella scuola emiliana di ideali piú schiettamente neoclassici che agiscono per una distensione meno preziosa, per un appoggio di «vero e bello», di «bello e buono», di principî estetico-morali di fronte a cui l’edonismo e l’utilitarismo della fase di metà secolo perdono parzialmente il loro vigore, il loro piú intenso riferimento «pratico»[25].

Felice l’uomo che a sé bastando e sciolto

da frivoli desir, da vani uffici

spesso a la turba involasi, raccolto

d’oscurità tranquilla in luoghi amici!

Là nol molesta con romor procace

falsa sovente e sempre mai leggiera

loquacità, né avvien ch’arte mendace

di vender lodi orecchio e cor gli fera.

Là fra i diletti non s’affaccia a lui

sazietà che a sé medesma è peso,

né legge il grava di velare altrui

l’augusto ver da cui l’orgoglio è offeso.

Né del potente urta ne’ guardi alteri,

né fraudi ha intorno di rapace gioco

o di sordo livor disegni neri

o petti ardenti a non concesso foco.

Ben, dalle colpe lungi e dal timore,

l’alma de’ morti che ne’ libri è viva

attento svolge, e del saper l’amore

le vigili lucerne a lui ravviva...

Cosí quando maggior dai monti l’ombra

cade e il piè lento a l’abitato ei move,

dell’alte idee soavemente ingombra

s’accende l’alma a generose prove;

e del dover l’immago ha ognor sul ciglio

fra i brevi sonni, fra la parca mensa,

ed il favor dell’opra o del consiglio

all’indigente suo simil dispensa:

mentre il folle vulgar, di vòto in vòto

secondo traendo della noia il duolo,

erra inutil vivente, a tutti noto

fuor che a se stesso e in mezzo a mille solo.[26]

Dalla base savioliana, nel suo gusto di cammeo in genere poco spaziato ed arioso[27], gli stessi «emiliani», piú iniziati in questa poesia del canzonettismo figurativo e mitologico, tendono sempre piú ad allargare le dimensioni della loro poesia, accompagnando ricerche metriche arieggianti le misure classiche, o in forme piú approssimative (il grande favore delle saffiche) o in tentativi che già iniziati dal Rolli culminano nel Fantoni[28], con la ricerca di una poesia della kalokagathia, della bellezza e verità di un didascalismo piú generico e piú distaccato da una immediata funzione volgarizzatrice: come di un’aura fra archeologia e sogno di perfezione ideale (poesia di archetipi, e figure ideali, di temi latamente filosofici), di una nostalgia, fra accademica ed intima, di un tempo perfetto, di una terra poetica, vera patria ideale ricercata ormai in ogni particolare di stile fino alla moda dell’abbigliamento e dell’arredamento[29], forma aperta a ricevere a sua volta un contenuto piú intenso di vita atteggiata eroicamente e solennemente: la virtú rivoluzionaria, e poi ancora la grandiosità imperiale napoleonica. La spinta notata nel Parini – e nel Parini saldata ad una poesia piú distaccata e distesa – è comune a questo periodo di neoclassicismo in progresso al di là delle forme classicistico-illuministiche e in contrasto con la vivace e rude, complessa e a volte equivoca sentimentalità preromantica che sarà poi l’essenziale alimento e stimolo del neoclassicismo romantico e la cui assenza, nel neoclassicismo piú accademico e puristico, provocherà, nella romanticomachia, la caduta di quelle forme piú esteriori e frigide.

Ma fino a quel momento essenziale di resa dei conti in cui si vedrà meglio il singolare equilibrio di eccezionali posizioni come quelle del Foscolo e poi del Leopardi, la letteratura neoclassica ha un suo chiaro sviluppo, ricco di pericoli evidenti (poesia letteraria ed accademica e minor senso della realtà), ma, nella sua coerenza di gusto e di stile, essenziale per una poetica come quella di un Foscolo, e altrove di uno Chénier e di un Keats: con la sua offerta di coscienza artistica, di materiale di sogni e di immagini, di accordi linguistici e di suggestioni figurative, con la sua tensione spesso maniaca e monotona tesa ad una trasfigurazione della realtà il piú possibile distaccata in miti perfetti e nostalgici, con la sua nobilitazione fantastica che ha perso, con cadute ed acquisti nuovi, il riferimento piú pungente e pratico della civilità illuministica. In questa l’antico era il contrappeso e il mezzo di evidenziamento eternatore di una modernità attiva e socievole, mentre nel periodo neoclassico si assiste al prospettarsi di un pericoloso sogno letterario e accademico, ma insieme di una ripresa di volontà e spesso di intimità poetica contro il praticismo di poetiche illuministiche didascaliche, di una lezione di distacco poetico pur essenziale alla poesia, di un sogno di perfezione che richiederà poi un’intensa animazione romantica per non risolversi in un pallido cielo di miti decorosi ed esangui.

La saturazione di cultura classica, seppure molto spesso piuttosto di seconda mano che non risultante da letture dirette (e qui è una delle caratteristiche di un Foscolo lettore di greci e non traduttore dei traduttori di Omero), permette, senza sforzo e senza quel che di sorridente e di coscientemente prezioso che non manca nella fase di classicismo illuministico-rococò, una speciale traduzione di vita, già però inserita in questi schemi e in questo velo di sogno, in linguaggio mitologico antico. Mito poetico fu senz’altro mito classico e il graviniano «miti, non ragionamenti» sarà sempre piú fino al Foscolo[30] contrapposizione di miti greci al «filosofismo» illuministico e al semplice discorso sentimentale dei preromantici.

Il linguaggio mitico si fa sempre meno funzionale ad un’immediata presenza di nozioni, di volizioni civili ed edonistiche, come il suo riferimento ad un mondo sensibile e sensuale (l’accusa morale del Manzoni), se si mantiene ancora in una precisa direzione – appunto quella savioliana che può sfociare nell’Ode alla Pallavicini –, si trasvalora sempre piú in pura forma di bellezza, in simbolo mediato di una sensibilità sentita nel passato, e quindi piú alleggerita e fantasticata. E l’urgenza illuministica del sensibile, pieno e caratteristico, cede a una volontà di bellezza «indeterminata», morbida ma insieme eterna come il marmo: dalle forme frizzanti e vivaci della Venere di Amour desarmé del Watteau alle statue canoviane!

Tendenze che giungeranno alla massima tensione nel periodo canoviano-foscoliano, ma che insieme in quello recupereranno i fermenti piú intimi del preromanticismo, e le istanze piú profonde del Gravina, del Conti, dello stesso Winckelmann, rianimeranno la massima purezza con un calore anche assurdamente ricercato di vita in figure immobili e spiranti secondo le indicative didascalie della Teotochi-Albrizzi alle statue canoviane. Orbene, per arrivare alla fase foscoliano-canoviana, le posizioni del neoclassicismo degli ultimi decenni del secolo, nel loro svolgersi da quelle classicistico-illuministiche (e da queste ancora accompagnate nella direzione galante erotica), sono essenziali, pur nella loro modestia di risultati particolari. Altro esempio di come solo negli studi di poetica prendano il dovuto rilievo scrittori attivi nel gusto del loro tempo e «cestinabili» da un punto di vista di storia letteraria solo per monografie e per risultati di poesia.

Cosí, anche nella linea piú vicina alla fedeltà savioliana, secondo la distinzione del Cerretti, una piú decisa ricerca di temi neoclassici (civiltà e poesia in toni solenni e in miti non decorativi né d’altra parte immediatamente e particolarmente usufruibili per particolari quadretti) corrisponde ad una ricerca di forme piú ampie, di linee piú distese, di immagini piú assorte e distaccate, di linguaggio sempre perspicuo, ma meno pungente e sapido.

In coerenza con il prevalere di temi «casti» e decorosi, di accentuazioni di sentimenti misurati e gentili, ecco un esempio di Giovanni Paradisi nella poesia A Lesbia per le nozze del marchese Forghieri, in cui la lezione savioliana (e si ricordi del resto che oltre gli Amori il Savioli ha odi piú larghe e l’esempio davvero notevole di Amore e Psiche) è accettata e superata per una musica piú varia e per una linea piú ampia e coerente, nella sua tenera mobilità, al nucleo sentimentale che vuole tradursi in immagini di gentile bellezza:

Tu, quando l’alba del carro lucido

abbia versato fragranze e porpore,

corri al giardino e svelli

i fior piú belli – che dischiude il sol;

poscia, succinta e di vel candido

ombrata, i fulgidi sguardi e il crin nitido,

va dell’amico ai lari,

e i casti altari – ne cospargi e il suol.

E se lo sposo t’avvieni a scorgere

tra servi e ancelle che all’opre sudano

della splendida festa,

dolce e modesta, – gli dirai per me:

che ben vorrei fregiar di numeri

dircei l’eletto connubio, e memore

di quell’allor che solo

contra uno stuolo – su l’Iseo mieté,

cantar d’ogni inclita sua prova e spargere

di lodi il mite senno, ond’ei gl’impeti

del mobil volgo ammorza

pria che la forza – opri col duro fren.[31]

Il tema di poesia e civiltà, di amore principio di civiltà, in cui l’edonismo galante savioliano sfuma in un mito civile (quanto ancora galante e convenzionale[32]), si ritrova con piú continuità associato ai temi dell’armonia, della bellezza ideale in quel frugoniano neoclassico che è Angelo Mazza e che nei labili fasti di quegli anni fu proclamato appunto «poeta dell’armonia» e persino grande poeta per l’eclettica versatilità e per i temi alti che lo indicavano a quel pubblico di lettori di trattati sul gusto, fra Bettinelli e Martignoni, di testi winckelmanniani, mengsiani, sulzeriani, come rinnovatore, dopo tanto canzonettismo, di piú seria poesia.

Nello sviluppo della poetica neoclassica nell’ultimo trentennio del Settecento merita particolare attenzione l’ambiente culturale parmense, in cui l’eclettismo frugoniano ed una forte tradizione arcadica, in quello ripresa ed arricchita di nuovi spunti di classicismo sensistico, costituiscono la base di nuove esperienze poetiche, che tendono a superare lo stesso stadio illuministico (cosí fortemente condizionato dalla organizzazione culturale del Du Tillot e dalla presenza stimolante del Condillac[33]) verso un piú deciso gusto neoclassico. Questo nuovo gusto è ben presente nella cultura figurativa appoggiata dalla locale accademia di belle arti, nella notevole educazione classica dello Studio con insegnanti ed eruditi come il Pagnini e il Paciaudi, nell’intensa vita teatrale e letteraria, nel rinnovamento edilizio della nuova «Atene», della «Crisopoli» tutta ispirata nel suo fervore culturale (rinnovatore nelle scienze e nella filosofia) da velleità di «attico gusto», di classica maestà e perfezione, recuperabili fin nella esemplare classicità tipografica del grande Bodoni, teso, secondo le parole del Rezzonico, a dare «a nuova opra d’ingegno – eterna vita».

Ma nella generale direzione neoclassica del gusto «lombardo», l’ambiente parmense – come constatava criticamente il Cerretti – tendeva a darne una particolare interpretazione piú chiaramente volta a forme grandiose e vaticinanti, ad una lirica alta e solennemente didascalica, pretenziosa e scontenta della semplice purezza e linearità. Ed essa, mentre rappresenta una elaborazione nuova di elementi frugoniani e di echi di Arcadia grandiosa e «barocchetta», risponde ad esigenze sviluppatesi nel seno stesso della cultura classicistica e variamente documentate, piú che in verseggiatori parmensi presenti negli ultimi volumi delle Rime degli Arcadi, nell’opera del Rezzonico e del Mazza.

Questi ultimi vengono cosí a costituire – con la loro attività velleitaria ed eclettica, ma tesa ad un recupero di grandezza e di profondità entro i quadri del neoclassicismo, dai cui ideali e schemi centrali traggono poi la possibilità di un piú continuo discorso poetico – un caratteristico aspetto della poetica neoclassica, il quale non mancò di suggestioni (specie nel caso del Mazza) per le iniziali esperienze del Foscolo e che, malgrado le polemiche, si può accostare a certi lati della poetica montiana.

Carlo Castone della Torre di Rezzonico (1742-1796) aveva inizialmente elaborato entro la sua formazione frugoniana (del Frugoni fu prediletto scolaro e dell’opera del maestro fu amoroso editore) una ripresa di temi e forme savioliane[34] che rappresentavano comunque – nell’evoluzione dall’Arcadia al neoclassicismo – un’esperienza di novità rispetto al semplice modello frugoniano. Aveva scritto canzoni per nozze, fedelissime al modello savioliano fra una ricerca piú guardinga di un rilievo elegante e sensibile di elementi edonistici[35] e la risoluzione figurativa dei quadretti mitologici. Ma già in queste poesie savioliane si può avvertire un piú esplicito ricorso ai miti greci (sí che l’occasione contemporanea è pretesto alla nostalgica creazione di compiuti e distaccati componimenti mitologici, come, ad esempio nell’Ascalafo), come i rapidi accenni paesistici savioliani si distendono in piene descrizioni idilliche che si avvalgono anche di caute riprese gessneriane (La ferma risoluzione) secondo la notata inclinazione del suo tempo verso forme di classicismo piú alto e contemplativo, in cui concorrono nel Rezzonico (sulla base del discorsivo frugoniano) una piú sicura assimilazione dei principi neoclassici e la tendenza crescente ad una poesia, non brillante, e non immediatamente utilitaria, ma celebrativa e solenne, o evocatrice di ideali perfezioni o didascalica nel senso graviniano e contiano. E del suo crescente grecismo, del rafforzamento del suo classicismo mediante una diretta conoscenza dei principi winckelmanniani, sono documento, non solo le precise indicazioni del Discorso accademico sulle belle arti, che è del 1772-75[36], ma, fra le numerose figure mitiche che rispecchiano, nella loro composizione, atteggiamenti tipici delle descrizioni neoclassiche di statue greche o ellenistiche, quelle che addirittura trascrivono in versi tipiche pagine winckelmanniane, come l’elogio dell’Apollo del Belvedere, cosí centrale e suggestivo nel sogno ansioso e morbido dell’archeologo tedesco, cosí davvero esemplare per la poetica neoclassica e per la sua distinzione dal precedente classicismo arcadico e illuministico:

Di luce il fascia aureo baleno, e tanto

è sopra lui fior di beltà diffuso

ch’ogni altro Dio n’è vinto, e solo Apollo

qual vive in marmo, e fu nel ciel scolpito

vincitor di Piton, gli è forse eguale.

Pura, lieta, tranquilla, amabil fiamma

gli arde nelle volubili pupille

che lucide diresti amiche stelle

cui dopo lungo battagliar co’ flutti

il navigante pallido, e col vento,

fra’ nugoli dispersi alfine ha scorto

nunzie di calma scintillar nell’etra.

Spirano odor Sabei le chiome d’oro

ch’erran quasi agitata onda sul capo,

e in lievi cirri mollemente attorti

al collo intorno, e sulle eburnee spalle

cadono, e van di gentil benda avvinte.

Pieno tondeggia il mento; in mezzo al volto

incolpabile scende il retto naso;

la tenue fronte è ciel sereno. Un riso

fra le vivide fraghe erra del labbro,

ma non però le schiude, onde piú bella

per morbide pozzette appar la guancia.[37]

Tutto il poemetto incompiuto, Agatodemone, in cui questa descrizione appare come ritratto del genio che illustra i «fasti parmensi», e i numerosi poemetti encomiastici in versi sciolti scritti a Parma, mentre riflettono la tipica abbondanza discorsiva dello scolaro frugoniano e il carattere piuttosto frondoso del suo stile, indicano bene il passaggio dal saviolismo ad un piú deciso neoclassicismo, tutto pieno di entusiasmi per il puro spirito greco[38], volto a travestire classicamente la vita contemporanea e a renderla, piú che solamente elegante, solenne, nobile, gloriosa, con dignità di «storia».

Come si può vedere appunto nell’Agatodemone (con quella lunga descrizione di una Parma tutta classicizzata in maniera ben diversamente minuta da quanto aveva fatto il Parini per Vicenza nella Magistratura) o nel poemetto per le nozze di Carlo Emanuele principe di Piemonte e Maria Adelaide Clotilde di Borbone, che esalta le vicende gloriose delle città piemontesi con una tendenza alla poesia celebrativa e storica in cui una tradizione, ricevuta attraverso il Frugoni, di pindarismo arcadico filicaiano e soprattutto guidiano, è ripresa con la nuova esigenza neoclassica di poesia grave ed eroica, sublime e solenne, che viene in lui a tendere il discorso poetico decoroso e contemplativo, nobilitato dai miti e dai riferimenti alla poesia greca, secondo una inclinazione caratteristica in questa direzione di neoclassicismo ricco di velleità grandiose, scontento della semplice grazia edonistica e delle «inezie canore» di tipo anacreontico e melodrammatico.

Ed è qui il punto piú interessante in questo studio dell’opera del Rezzonico come documento di una tendenza del neoclassicismo fine di secolo, che si complica poi nel Mazza con accentuazioni mistiche e con impeti di vaticinio irrequieto ed eccitato, pur ben inscritti nell’ambito degli interessi neoclassici e appoggiati ad ideali neoclassici malgrado l’inconsapevole sollecitazione di piú generali fermenti preromantici, vivi nell’epoca al di là delle distinzioni di gusto e di stile. Il Rezzonico – fedele come abbiamo visto ai principi neoclassici e tutto ghiotto (secondo una sua espressione) di richiamare nel suo discorso poetico un’aura di perfezione greca – vive tale sua aspirazione non solo nell’evocazione di figure e di quadri in poemetti piú liberamente mitologici e idillici, ma nella celebrazione eroica o nel didascalismo assorto e vaticinante secondo i principi graviniani e contiani.

Nel Ragionamento sulla vulgar poesia dalla fine del passato secolo ai giorni nostri (premesso nel ’79 all’edizione delle opere del Frugoni, in Opere, VIII), al netto rifiuto della musicalità arcadico-metastasiana identificata nel facilismo meridionale[39] e alla solita condanna del Seicento marinistico («sacrilego culto»), si associano la ricostruzione di una linea esemplare, che, accettando la buona volontà di Chiabrera e Testi, si precisa in Arcadia fra i tentativi della poesia alta di Filicaia e Guidi (lodatissimo per aver immesso «un vigor quasi gigantesco alla snervata poesia»), e la lezione essenziale del Gravina, quanto ad una poesia «custode d’arcana scienza» e consegnata in una espressione libera e articolata potentemente, concreta e sublime: quale soprattutto permetterebbe il verso sciolto, «unico sentiero apertoci per emulare gli antichi, e trattar con dignità filosofici argomenti» con la nostra «del rotondo dei Greci arguto labbro / imitatrice armonica favella», asservita per troppo tempo alla «ignobil rima» a cui esclusivamente ricorre solo «chi dimostrasi un vero barbaro settentrionale»[40].

Avversario del semplice «filosofismo» antipoetico dei versaggiatori illuministici (ma lontano da quella piú sensibile contrapposizione di verità poetica e verità scientifica che trovava una realizzazione genuina e feconda in senso preromantico nelle Prose campestri del Pindemonte), il Rezzonico lo distingue neoclassicamente da una poesia messaggera di verità arcane, didascalica, ma non puramente descrittiva, e invece involta in un’aura contemplativa, solenne e distaccata.

Certo in questa direzione della sua poetica (che era reazione alle «inezie canore» arcadiche e alla «povertà di idee» che egli non poteva non sentire nell’amato Frugoni) la tensione didascalica di un neoclassicismo che vuole sostenere la sua purezza formale (che a sua volta non può non soffrire di questo maggiore sforzo di arricchimento contenutistico) si confonde a volte con la semplice lucidezza di nobilitazione della scienza e con l’elegante descrittivismo della fase piú illuministico-sensistica del Parini. E cosí piú tardi il Martignoni poté accusare il Rezzonico proprio per un eccessivo peso di dottrina scientifica e filosofica non risolta tutta in immagini. Ma è pur certo che negli stessi poemetti in sciolti di carattere didascalico ritorna l’aura degli altri poemetti idillico-mitologici tesi ad un senso piú meditativo e grandioso, e l’impegno descrittivo, l’intento di volgarizzazione sono inferiori alla ricerca di un tono alto e contemplativo, di una poesia compiaciuta della sua missione di rivelatrice di verità difficili e inebriata della propria analogia con la poesia degli antichi vati, incantata dagli stessi miti di bellezza lontana che essa introduce come paragoni nobilitanti, ma che in realtà finiscono per prevalere sui motivi cui dovrebbero servire, per farsi essi stessi il termine piú vero della meditazione poetica, della sua tensione a zone alte e solenni.

Cosí avviene nello stesso poemetto sull’origine delle idee, secondo la filosofia condillachiana, in cui sulla precisa descrizione filosofica finiscono per prevalere l’ansia di una poesia filosofica, alta e rivelatrice, e il piacere delle cose delicate, belle, poetiche che le sensazioni descritte conducono a scoprire, ingentilite e impreziosite dai riferimenti al mito e al linguaggio poetico antico. Cosí tanto piú facilmente avviene nel poemetto Il sistema de’ cieli, in cui si può risentire anche un’eco del Regno di Pallade del Conti e in cui lo stesso soggetto ben si presta a questa ricerca di toni contemplativi e, meglio che in quella dell’Arcadia scientifica del Bertana, rientra nella tematica di questo côté necoclassico che ama soggetti elevati, non volgari, e vede nel cielo[41], fisico e metafisico, il termine piú adatto alla sua aspirazione di alta poesia didascalica, alle sue estasi contemplative, come a quei confusi vaticini misticheggianti e cosmici che prevalgono nel Mazza.

C’è anche in questo poemetto la ricerca (non sempre riuscita, ché l’eleganza del Rezzonico è ben lontana da quella di un Parini) di una descrizione precisa di strumenti e di movimenti dei sensi e della mente. Ma essa volentieri cede alla contemplazione celeste, all’inclinazione di un abbandono estatico in cui un certo languore della sensibilità preromantica, naturalmente attiva anche in fautori accaniti della fedeltà ai «limpidi di Grecia rivi»[42], si fonde con una nostalgia per un passato di perfezione, per una lontana patria poetica, che accompagna l’espressione di scene e figure poetiche, trasposte sul piano luminoso del mito greco. Come si può sentire ad esempio in questi versi:

Tu di questo, o del primo ottico tubo

avvalorando il curioso sguardo,

allorché mezza della propria notte

tace nell’ombra la volubil terra,

veglia fra’ merli di solinga torre,

e le stellanti chiostre al guardo appressa.

Ma pria, novello Endimione, il volto

fiso contempla della bianca luna,

che qual a lui nell’amorosa grotta

della Latmia pendice, a te di furto

par che s’accosti per l’aria serena.[43]

Ma, accanto a questa direzione di poesia didascalica, interessa notare nell’opera del Rezzonico, considerata nei suoi aspetti di poetica neoclassica, quell’altro lato della sua tensione alla poesia alta e solenne[44] che si lega anche meglio alla notata interpretazione antifacilistica della tradizione arcadica e che nella composita e fiacca poesia frugoniana sceglie non il canzonettismo anacreontico e il discorsivo oraziano, ma il celebrativo pindarico. Il quale domina in versi epici e affiora negli stessi poemetti encomiastici già ricordati o in quella stessa canzone per il centenario d’Arcadia, in cui il rifiuto del «tumido Seicento» non esclude però una elatio spiritus di tipo eroico che disprezza le «inezie canore» e l’idillismo pastorale[45] e cerca nella perfezione greca colori piú gravi, suoni piú cupi, impeti di immagini piú grandiose, utilizzanti la sonorità frugoniana per effetti che la accomunano a tipiche tendenze montiane.

Notevoli in tal senso non tanto i quadri e i ritratti atteggiati e ampollosi di certi sonetti giovanili piú scolasticamente frugoniani (come, ad esempio, il sonetto Il passaggio della Trebbia del console Sempronio esemplato sul celebre sonetto frugoniano Annibale sulle Alpi), quanto i componimenti lirici, le odi e canzoni, in cui – aiutato dalla natura del genere – il Rezzonico pretende a mosse piú intense e a quel colore brunito di quadro epico e storico che meglio si può apprezzare in quella canzone Per la solenne proclamazione del Duca di Sudermania sotto i nomi di Aerifilo Maratonio, da cui il Foscolo, con tanta diversa potenza, riprese, per il celebre passo di Maratona, il momento certo piú denso in mezzo a tanti spunti non realizzati di grandiosa rievocazione mitico-storica.

Col nuovo gregge andrai

di Maratona a spaziar sul lito,

e ne’ silenzi della notte udrai

squillo di trombe e di destrier nitrito,

ch’ivi pugnano ancor l’ombre sdegnose

de’ Persi arcieri, e degli astati Achei.

Un cippo a’ spenti Eroi la patria pose,

l’aligera Vittoria alzò trofei.[46]

O nella sequenza di encomi delle antiche città piemontesi, nel poemetto citato per le nozze del principe di Piemonte, o nello stesso poemetto L’eccidio di Como che, se può essere ricordato per una vaga indicazione di preferenza preromantica per un quadro storico medievale (e non è privo di una sua efficacia, specie nelle scene notturne della città silenziosa e abbandonata dai difensori all’insaputa dei nemici, e del successivo irrompere di questi nelle vie deserte), documenta soprattutto questa aspirazione al grandioso nella rievocazione di storie bellicose ed eroiche.

E qua e là, sempre pronti a decadere in surrogati scadenti del grandioso e dell’eroico, questi impeti, poco coordinati e incapaci di sostenersi e svolgersi organicamente, affiorano in versi isolatamente suggestivi e alimentati da una simile posizione della poesia guidiana:

... al solo Fato

cesse, e fra l’ombre degli eroi mischiossi;[47]

Dal Ciel principio abbian le Muse

e chiari per vanto di pietade oltre la pira

vivan gli eroi;[48]

... osò lanciar l’inauspicato abete;[49]

Come del mar sull’ampio dorso il guardo

libero spazia e nell’azzurra nebbia

nuotano le foreste ultime e i colli;[50]

Sorgono l’ombre da’ sepolcri cupi;[51]

Né va trascurata – sempre all’insegna della velleità e sull’orlo della caduta retorica del sublime in goffo – la presenza nell’opera del Rezzonico di una lirica religiosa[52] che sceglie al solito nella tradizione arcadica non il travestimento pastorale idillico della leggenda natalizia e le forme canore metastasiane inclinate fino al popolaresco delle pie canzoncine di S. Alfonso de’ Liguori, ma certi tentativi di grandioso che torneranno, in quegli anni, nel Minzoni e nel primo Monti e che il Rezzonico traspone su di un piano di inno sacro di intonazione epico-lirica, con uno sforzo di slancio e concisione che sol dall’esterno fa pensare al Manzoni e ricorda comunque lo stimolo letterario che per gli Inni sacri poté avere questo lato della poetica neoclassica e la sua ricerca di linguaggio alto e fulmineo, sublime e annunciatore. E si vedano, in questa direzione, Per il S. Natale, Nenia al sonno per giorno di Natale, La quaresima, Per il venerdí, in cui – in mezzo a continue cadute in forme esteriori, ampollose e abboracciate, e nell’assenza di un robusto motivo lirico centrale, in un generico impeto di celebrazione e di commozione religiosa, che fonde alla meglio echi biblici e accenti eroici di inno mitologico – si staccano strofe piú efficaci, movimenti di linguaggio fra avventato e possente:

E di natura attonita

per vendicar l’offese,

il florido paese

in lago ampio s’aprí...

Lui, che potrà la gelida

urna sprezzando e morte,

del Tartaro le porte

con man vittrice aprir.[53]

Certo, nello svolgimento dell’attività poetica del Rezzonico, questi slanci e questi tentativi di lirica religiosa ed epico-storica non riescono a costruirsi organicamente e ad affermarsi con vera forza al di là dei lunghi e monotoni poemetti mitologici e didascalici con cui anche cronologicamente si alternano. E la sostanziale mediocrità dell’«eruditissimo» scrittore e la sua stessa incertezza fra una volontà grandiosa e il timore di ricadere nei vizi del Seicento (tipica condizione di questa direzione del gusto di fine secolo), fra un senso piú profondo del mito e della poesia «filosofica» e la tentazione del descrittivismo e dell’esposizione in versi, gli impedirono di raggiungere un significato pieno e deciso. Ma anche in questi chiari limiti, l’opera del Rezzonico indicava, nell’affermarsi del neoclassicismo con la sua fedeltà ai greci e ai princípi winckelmanniani, nel suo distacco dalle forme edonistiche e semplicemente eleganti o utilitaristiche del classicismo precedente, lo sviluppo di una velleità di poesia grandiosa e, mentre riecheggiava a suo modo, attraverso il frugonianesimo, una eredità arcadica particolare, interpretava il neoclassicismo al di là dell’ornamentale e dell’idillico e tentava di arricchire l’aspirazione alla nobile semplicità e alla tranquilla grandezza con temi e modi piú impetuosi e impegnativi. Il decoratore di bei miti tende a farsi «vate» e «sacro cantore», come in maniera piú decisa avviene nell’altro «antifacilista» della corte di Parma: quel Mazza che il Rezzonico criticava ed ammirava accettandone la volontà di poesia «seria» e nuova, ma diffidando del suo eccessivo «pompeggiare» e dei suoi rischi di rinnovato barocco e indicando insieme la sua qualità di «meteora letteraria» e la sua «inquietudine poetica»[54].

Questa esigenza di una poesia alta, messaggera di verità «arcane», superiore al descrittivismo illuministico e alla ricerca di un figurativo elegante ed edonistico, è particolarmente viva in Angelo Mazza (1741-1817), che nel centro culturale parmense rappresenta nella maniera piú vistosa l’ansia confusa e retorica di un’epoca insoddisfatta dell’equilibrio illuministico-classicistico e riflette (mentre il Parini matura nel suo animo e nel suo gusto uno svolgimento neoclassico dell’utile dolci in un superiore equilibrio di sensibilità e di serenità, di verità e bellezza consegnato nelle ultime odi) la condizione di una sensibilità eccitata dagli stimoli preromantici, ma insieme desiderosa di una conquista di armonia e di perfezione, in cui vibrano confusamente quelle inquietudini di una spiritualità non chiarita nelle sue mète (fra restaurazione religiosa e attesa di nuovi ordini) che, con tanto diverso vigore e originale carattere di crisi formativa, si possono avvertire proprio nei componimenti dell’adolescenza foscoliana piú aperti all’influenza del Mazza.

Né occorrerà insistere qui sul fatto evidente che tutto ciò rimase non solo su di un piano di velleità, lungi da compiuti e validi risultati poetici, ma entro limiti invalicabili di un gusto settecentesco in cui le punte della tensione al «grandioso», al vaticinio (cosí eloquente e inconcludente), si confondono con l’eredità frugoniana[55], su di una linea che riprende certi motivi di Arcadia (fra le intuizioni piú potenti del Gravina e i conati del Guidi) rimasti soffocati dal prevalere del miniaturismo canzonettistico e melodrammatico, o diluiti appunto nei vacui encomi cortigiani di un Frugoni meno sincero e pure importante per questa epoca di equivoci entusiasmi e di rinnovati voli pindarici.

Il Mazza aveva accolto naturalmente nel suo esercizio di poeta d’occasione (nel senso meno goethiano della parola) anche gli esempi del classicismo edonistico e non mancano nella sua opera alcune odicine di puro stampo savioliano, erotiche e galanti, non prive di risultati notevoli proprio nei quadretti mitologici piú distaccati e vagheggiati[56]. Ma (a parte la loro giustificazione nuziale all’insegna del «casto e sacro talamo» che denuncia comunque nell’ambiente di questi neoclassici verecondi l’abbandono del carattere malizioso e libertino e addirittura di quella tipica religiosità erotica naturalistica cosí forti e validi nel classicismo di pieno Settecento) esse rimangono senza dubbio ai margini dell’opera piú impegnativa di Armonide Elideo, come nel suo composito linguaggio poetico gli elementi del molle atque facetum, del «piacevole», rimangono nettamente inferiori, per numero e rilievo, di fronte alle espressioni piú congeniali al suo animus di vate del grandioso, dell’armonia spirituale e poetica. Ed ugualmente certi componimenti satirici e «piacevoli», raccolti in una particolare sezione delle sue Opere[57], appaiono quanto mai secondari nella sua poesia accigliata ed estatica (e certo non priva di una sua personale serietà e intimità ben maggiore di quella del Rezzonico) e piuttosto si riconducono – a parte gli scherzi piú aperti sull’ufficiale spagnolo Mochica y Mora – ad una specie di degnazione molto circoscritta (e spesso mossa da spunti piú risentiti di umori bizzosi ed inameni), verso una usanza letteraria ancora viva, da parte di uno scrittore tutto pieno della propria alta dignità di cantore di verità superiori, di «sacerdote de la schiera Aonide», insofferente di argomenti volgari e contrastanti con la sua tematica dell’armonia[58].

È infatti su questa tematica che il Mazza piú decisamente si impegnò, subordinando ad essa le minori esercitazioni di occasione (per monacazioni, nozze, auguri di corte) e riconducendole per lo piú entro una specie di intelaiatura di poema continuo, ispirato appunto al fondamentale tema dell’armonia, intorno al quale si compone il nucleo centrale delle sue poesie e che fu accettato dai contemporanei come il suo caratteristico campo di ricerca poetica (e «poeta dell’armonia» lo chiamerà sempre, ad esempio il Cesarotti)[59]. E a questo tema centrale con le sue variazioni coerenti è subordinato quello stesso motivo religioso, incerto fra stimoli sinceri di riconquista di un sentimento perduto nel razionalismo illuministico ed esigenze cortigiane di un ambiente ufficiale cattolico[60], ma comunque – pur nei riferimenti a testi biblici e teologici, confusi del resto con riferimenti a testi platonici e neoplatonici – certamente risolto nella tensione piú generale, nell’ansia di una poesia della sublime armonia che trova la sua possibilità di precisazione tematica, di formulazione centrale, nella cultura neoclassica, nei principi winckelmanniani. E proprio questi permettono agli slanci del Mazza e alla sua stessa utilizzazione di precisi testi esemplari inglesi fra Seicento e Settecento (Milton, Dryden, Mason, Akenside) di raccogliersi in una centrale aspirazione ad una superiore zona di bellezza e di purezza, ad un regno sublime in cui il movimento eccitato dalla fantasia e dalla sensibilità potesse trasformarsi in immagini grandiose.

Certo (ed è qui che si capisce il sospetto di altri neoclassici sempre timorosi di ritorni dell’aborrito Seicento in ogni eccesso di slancio e di turgore sentimentale e fantastico) la poetica del Mazza si distingue per i suoi succhi piú ibridi e per il suo slancio meno controllato e composto, meno sereno e limpido (in cui la sua natura riprende, come abbiamo detto, condizioni di un’Arcadia enfatica e grandiosa nell’onda qui diversamente eccitata dal verso frugoniano), ma la rivelazione dei suoi impeti sarebbe stata impossibile anche nella sua stessa qualità di conato, di discorso discontinuo e diseguale, se non si fosse appoggiata ai principi essenziali della poetica neoclassica, se il Mazza non avesse immesso la sua ansia e la sua tensione entro temi e moduli poetici di maggiore saldezza costruttiva accettando i miti della bellezza ideale, del cielo di archetipi eterni. E se, di fronte al neoclassicismo piú figurativo e fedele all’essenziale immagine dell’Apollo del Belvedere nella interpretazione winckelmanniana, la sua poesia appare in generale tanto diversamente agitata ed enfatica, è pur vero che essa interpretava, con maggiore impegno di tanti illustratori di immagini serene, di miti classici, l’essenziale tensione al grandioso, insita nel messaggio del Winckelmann, quella fervida ed equivoca aspirazione spirituale ed estetica (venata di morbidezze estetizzanti, di leggiadria rococò, e persino di inconsapevoli ritorni di plastieo vigore barocco)[61], che anima il sogno archeologico dell’autore della Storia dell’arte presso gli antichi.

E non ripetiamo qui come l’interpretazione poetica del Mazza, pur con tutti i suoi rischi, con il suo indice di una possibile rottura della stessa civiltà neoclassica, con la stessa ripresa d’elementi arretrati di Arcadia (donde l’impressione di avanzato e di arcaico del suo linguaggio che a volte sembra persino non avere ben assimilato il lavoro paziente dei classicisti precedenti), fosse ben nettamente – anche se con una certa lateralità – al di là del classicismo di metà secolo, nella linea di un neoclassicismo grave e sublime, essenziale al quadro della letteratura di fine secolo.

Non solo il Mazza consente nella sua poetica all’immagine di lui tratteggiata nella lettera premessa alle Opere come vate neoclassico («primo interprete del popolo delle scienze e maestro di costumi, innalzandoli con ardimentosi ma sicuri voli dalle cose create all’archetipa idea del Bello, del Grande, del Vero»), dando alla sua poesia una missione civilizzatrice comune alle altre arti[62] e al poeta-vate il carattere di teologo e di legislatore, ricercato con nostalgia nella felice età greca[63] («oh aurei giorni! oh tralignata etade!»), ma svolge spesso in poesia tipici principi estetici neoclassici, come quello di «unità e varietà», e soprattutto risente con un piú deciso valore neoclassico l’iniziale tema dell’armonia che aveva avuto convenzionali svolgimenti sonettistici anche in Arcadia come l’avevano avuto i motivi dell’illustrazione e del primato delle varie arti[64]. E ciò si precisa meglio quando il Mazza passò dalle traduzioni dei componimenti inglesi sull’armonia alle sue odi ed inni, in cui (meglio che nei sonetti piú enfatici ed a soluzione di effetto clamoroso) la «bellezza armonica ideale» vive nella sua assolutezza di «archetipo eterno unico vero», di illuminazione del «raro interno e d’ogni menda schietto / senso del Bello e del Gentile»[65], e costituisce una concreta mèta di ordine armonioso nella costruzione dei suoi impeti vaticinanti, permettendone una meno frammentaria realizzazione in forme sempre fortemente immaginose ed eloquenti, ma piú delineate e continue.

E se l’armonia nel Mazza passa facilmente da un senso piú generale di segreto ordine universale (quello di cui parlerà il Foscolo nei frammenti della ragion poetica delle Grazie) e di animatrice della vita e di tutte le arti alla nozione piú particolare di qualità essenziale della musica (donde il piú volte ribadito primato della musica sulle altre arti), questa stessa posizione era poi chiaramente neoclassica ed «antifacilista», e la musica (si pensi del resto alla significativa predilezione del Mazza per il Gluck e per il Sacchini fra i musicisti dell’epoca) era sentita negli schemi neoclassici che la vogliono pura e grave, dorica, moralizzatrice, incanto rivelatore – ancor meglio del gesto e della linea perfetta nelle arti figurative – di un’armonia superiore al diletto della semplice melodia[66]. E d’altra parte, rispetto al senso romantico della musica suscitatrice di affetti tempestosi, di moti malinconici dell’animo (la rivelazione alfieriana dell’infinito sentimentale, del senso drammatico della vita), l’armonia-musica del Mazza, pur rivelatrice di un animo inappagato dalla semplice fruizione piacevole delle sensazioni e del tranquillo equilibrio razionalistico, è concepita come «sedatrice de’ violenti moti dell’animo ed eccitante ne’ giovanetti l’amore nell’ordine» e – in piú diretto contatto con l’alta armonia foscoliana – come destinata a disacerbare le affannose cure dei mortali:

I miseri mortali a cui sí spesso

il tesoro del tempo è cura e noia,

armoniosa dilettevol aura,

sentono il tuo poter; e ’l cor d’antico

amareggiato e di recente affanno

disacerba per te; per te vien lieve

l’importabile allor fascio dell’aspre

cure, compagne della vita e altrici.[67]

Superiore alle arti figurative perché piú intimamente capace di rivelare «del Bello eterno la perfetta idea»[68], la musica ricerca la perfezione raggiunta nella ideale patria greca[69] e la poesia ne raccoglie l’esempio e la voce piú profonda, ne esalta gli effetti sublimi in un mondo turbato da ansie non chiarite e da impeti di elevazione in cui la torbida natura del Mazza spiega le sue caratteristiche irrequiete e vogliose (un tormento che non si chiarisce e si confonde con equivoci surrogati di autentico dramma, con ritorni di Arcadia grandiosa ed enfatica) e le raccoglie intorno all’aspirazione ad una sfera superiore e platonica di perfezione e di armonia.

Cosí, se certi scavi sentimentali sollecitati da esempi preromantici di diversa maturità (Parnell come Varano o un Klopstock orecchiato), certe curiosità di sensibilità lugubre notturna possono interessare piú chiaramente la storia del nostro preromanticismo (ed è chiaro come in questi casi sia tanto piú difficile una netta separazione fra linee di gusto che si accavallano e si intersecano nelle concrete personalità), se la tensione messianica e cosmica del Mazza raggiunge frammentariamente scatti e suoni, immagini piú singolari e isolatamente suggestive[70] proprio là dove l’impeto piú irrequieto appare disordinato e avventato, in realtà poi questi conati poetici, che potevano sorprendere e scuotere i contemporanei (e che contribuirono a sollecitare il Foscolo adolescente ad espressioni in cui egli veniva cosí provvisoriamente rilevando il suo nuovo animo in crisi di formazione[71]), si inseriscono nella spinta neoclassica al grandioso e al solenne (ed anzi ne costituiscono una interpretazione, una accentuazione torbida, ma importante nel quadro generale della poetica fin di secolo) e in quella cercano essi stessi sistemazione e raccordo.

E una linea di discorso poetico piú continuo, di immagini piú concluse, di musicalità piú densa e resistente, si può trovare dove prevale nella poesia del Mazza (pur sempre nelle sue caratteristiche di eredità frugoniana, di tendenza verbosa e di scatto irrequieto e velleitario) una maggiore volontà di costruzione; come nelle odi sulla armonia, e dove gli essenziali motivi della poesia vaticinatrice son riveduti in una maggiore inclinazione di sogno neoclassico, in un velo mitico che meglio sensibilizza l’aspirazione alla bellezza ideale, all’armonia, al superamento delle cure. Ed ecco le figure piú neoclassiche in cui si inverano i motivi dell’armonia:

Eufrosine che ha sempre il gaudio in fronte

il sorriso sul labro, in cor la pace;[72]

o la melodia che «stilla limpida vena di vital diletto» e che spira all’anima

aura sottil d’armonico concento

che nel sen del dolor desta la gioia

e giustifica all’uom l’opra di Dio;[73]

o l’armonia stessa:

a vereconda vergine simile

cui non mentisce le fattezze conte

di color compri magistero, e solo

conscia e paga di sé, di sé s’adorna

e al placido chiaror di ingenui modi,

di schiette grazie, di costumi intatti,

fa trasparir la nobil alma, e invita

ben nato core a sospirar per lei;[74]

o questa figura di Pallade che presso

com’era d’un padule, in sul cannoso

margin s’adagia e al gomito s’appoggia.

D’un zeffiretto leggerissim’ala

increspa a caso il liscio pian dell’acqua,

che, mentre quel sospira infra le canne,

con dolcissimo fremito sussurra.[75]

E del resto anche nella traduzione di testi preromantici, se spesso possono piú colpirci per il loro folgorare di breve meteora, di equivoca illuminazione, versi isolati che piú si legano al contatto fra il testo nelle sue parti piú risentite e lo scatto irrequieto ed ansioso del traduttore, piú duraturamente efficaci su lettori quali Monti, Foscolo, Leopardi furono quelle parti in cui il Mazza condusse la tensione propria e del testo ad una cadenza piú continua e distesa, creando movimenti di distinta eloquenza, di stupita contemplazione:

Cosí è profondo quell’azzurro in cui

l’etere si colora, e stan librate

fiammelle innumerabili infinite

che non perdon scintille!...

Dorme lo spirto di Favonio, e tace

l’equabil lago, nel cui vitreo seno,

riscintillando a me, sceser le stelle...

Dunque a che pro l’inanimata salma

vestir di bruno ammanto, e al non suo tetto

ombrar le porte di feral cipresso,

perpetuando ad arte i pensier tristi

di chi a noi sopravvive! A che que’ veli

fastosamente a terra stesi e d’armi

e canne, ombra d’impero, e de’ cavalli

grave traenti il lugubre feretro

la mestissima pompa e i brun pennacchi

su la bassa cervice alto ondeggianti?[76]

Cosí questo poeta mancato, ma non privo di una sua iniziale tensione poetica, segna – entro le linee di un neoclassicismo che si sviluppa e si complica con interpretazioni diverse e, se non eterogenee, rischiose agli occhi dei neoclassici piú fedeli all’eleganza e alla purezza formale – un significativo momento di tale complesso svolgimento e di una crisi in lui non risolta e documentata nel suo stesso linguaggio poetico[77]. E mostra, d’altra parte, come nell’ultimo Settecento (dopo l’impeto iniziale del preromanticismo, che – a parte alcune esplosioni piú rudi e momentanee – si veniva sistemando in sintesi raffinate e sensibili fra preromanticismo e neoclassicismo, come quelle del Bertola o del Pindemonte) la poetica neoclassica potesse raccogliere ed ordinare piú chiaramente, in discorso poetico e alla luce di ideali letterari diffusi ed efficaci, anche impulsi poetici che nel suo seno potevano apparire piú azzardati e irrequieti, insoddisfatti della semplice perfezione formale e pure incapaci di vivere fuori di quella poetica, prima che, con ben diversa forza di poesia e con ben diverso impegno nella storia viva del proprio tempo (e ben al di là dell’esperienza importante, ma piú laterale e letteraria del Monti), il Foscolo venisse ad attuare la sua originalissima sintesi di romanticismo neoclassico.


1 Sí che essi si possono giustamente definire preromantici anche se nel loro sviluppo soluzioni neoclassiche si offrono saltuariamente e, ad esempio, nel Pindemonte si affermano come conclusione della sua carriera poetica.

2 P. Martinato, Anno poetico, I (1793), p. 209.

3 F. Zacchiroli, Anno poetico, I (1793), p. 201.

4 Anno poetico, II (1794), p. 248.

5 Anno poetico, II (1794), p. 143.

6 Anno poetico, III (1795), pp. 35-36.

7 Il tema per cui anche il giovane Foscolo scrisse una delle sue «elegie» preortisiane.

8 Anno poetico, V (1797), p. 186.

9 Per cui il Croce (La letteratura italiana del Settecento, Bari 1949, p. 353) trova un’eccezione a favore di una sua ode per la soppressione della Compagnia di Gesú.

10 Op. cit., p. 362.

11 Tale quadro storico del Croce, sviluppato soprattutto nel suo saggio cosí ricco e bello sull’Arcadia (1945; ora in La letteratura italiana del Settecento cit.), va, secondo me, riveduto e graduato in un rilievo piú attento alle varie fasi della poetica settecentesca in cui il momento arcadico, pur certamente considerabile come avvio di motivi estetici e culturali che si svolgono durante tutto il secolo, ha però la sua vera vitalità solo nella prima metà del Settecento quando l’Arcadia rappresenta pienamente le esigenze e l’espressione letteraria della società razionalista-rococò. Piú tardi altre esigenze e altre condizioni culturali trovano nuove sintesi letterarie e le stesse parole del «gusto», della perspicuitas, di «natura» e «ragione» si arricchiscono di significati e di valori diversi pur mantenendo un legame innegabile tanto piú chiaro quando si raffiguri tutto il secolo sulla contrapposizione della potente novità alfieriana (anche questa però non eterogenea certo al lavorio della sensibilità preromantica nella sua tensione ad altra poetica e ad altra cultura) con quella classicistico-illuministica, e addirittura di fronte alla nuova civiltà romantica. Una conoscenza del Settecento richiede un’attenzione acuta al variare delle condizioni di cultura e di poetica sia nei riguardi della preparazione del romanticismo (con la sua fase particolare di romanticismo neoclassico), sia nella sua interna vitalità complessa e sfumata, tutt’altro che immutabile pur nel rilievo di alcune linee dominanti comuni. Difficile ed arbitrario fare tagli netti, motivare bruschi passaggi, ma in un’evoluzione sfumata e viscosa si può e si deve tuttavia cogliere la dinamica tensione dei movimenti di poetica tanto piú chiari nella loro maturità distintiva se non nei loro avvii e nel loro spengersi e tramutarsi. E cosí, come già dicemmo a suo luogo, si troverà giustamente la formazione del Parini in Arcadia o persino la persistenza di motivi arcadici in lui, ma non lo si potrà vedere tutto in Arcadia, con la sua poetica «della negletta via» prima, dell’«orecchio placato» poi, con la sua evoluzione di gusto e la sua ricchezza di impegni umani e storici nuovi. E se intuizioni ed idee di uomini dell’Arcadia vengono riprese e svolte nel tardo Settecento, la sintesi in cui essi vivono, la loro funzione in sede di poetica, è nuova e diversa da quella che accomuna le Rime degli Arcadi e la poesia di un Metastasio. Insomma alla caratterizzazione generale del Croce si deve dare una maggiore vita interna, una graduazione piú minuta e complessa.

12 Preromanticismo italiano, pp. 245-249 (2a edizione).

13 Nella introduzione ai Lirici del sec. XVIII, Firenze, 1871, poi in Opere, ed. naz. XVIII.

14 E questi poeti e le poesie del côté savioliano il Momigliano pubblicò nella sua piccola antologia savioliana e neoclassica, Firenze 1943.

15 E si badi a non esagerare i limiti da noi posti nel desiderio di percepire i passaggi e le gradazioni di un gusto nelle sue particolari giustificazioni, tanto piú che essi potevano essere meno sentiti nel generale zelo classicistico e piú facilmente l’esperienza savioliana poteva essere assimilata alle rivelazioni winckelmanniane di cui poteva apparire una anticipazione concreta e provvidenziale.

16 In Raccolta di prose e lettere del sec. XVIII, III, vol. II, Milano 1830, p. 300.

17 II barocco è lo spauracchio, l’infame da écraser, che i settecenteschi vedono molto spesso l’un negli occhi dell’altro, molto spesso inconsciamente idoleggiandolo poi sotto tutt’altre forme, nella loro ricerca di motivi piú «grandi» ed emotivi.

18 «Quali sono i tratti che leggiamo con piú trasporto in Virgilio? Il quarto e il sesto libro, la morte di Niso, di Lauso, di Pallante, e le querele de’ disperati loro parenti. Il conte Ugolino, la storia di Pier delle Vigne, la morte di Clorinda, i lamenti di Tancredi, l’abbandono di Olimpia, il triste fine di Isabella, le sciagure di Eurialo e Niso sono le cose che incontrano nel Dante, nell’Ariosto, nel Tasso» (Raccolta citata, pp. 309-310).

19 Ma si stia ben attenti in proposito a non confondere in quest’epoca i fermenti vichiani con i piú generici motivi graviniani (poesia e civiltà) e a non anticipare la particolare fecondazione vichiana che è tipica del Foscolo.

20 La vendetta, citata nel testo dei Poeti minori del ’700 di A. Donati, Bari 1912, I, p. 232.

21 L’Ancella, ivi, I, p. 225.

22 L’Ancella, ivi, I, p. 225.

23 Al Fantuzzi, ivi, II, p. 305.

24 Che non può con la grandiloqua

tromba oprar l’immenso Omero?

Sotto il vel di finte immagini

egli asconde il giusto e il vero:

senza lui tra le faville

peria tutto, né al macedone

quasi un dio sembrava Achille.

25 Giovar piacendo agli uomini

e ragion vestir d’incanto

dice ancora il Cassoli, ma il preciso impeto civile e razionalistico della poetica illuministica è ormai in lui affievolito per un’ispirazione morale piú «solitaria» ed «estetica».

26 Poeti minori del ’700 cit., II, p. 281.

27 Si noti la vicinanza, e pur la diversità di respiro e di intime dimensioni nella stessa «prospettiva», fra il finale della Educazione pariniana e questo finale pur notevole in un’ode del Savioli Per il passaggio di Carlo III:

Tacea Nettuno, e degli dii del mare

alto applaudia la schiera;

e apparia da lontano

l’amica piaggia ibera.

(Poeti minori cit., I, p. 79).

28 Sul quale è interessante l’attenzione esagerata del Carducci funzionale al suo classicismo «barbaro», e piú interessante la limitazione del Foscolo da un punto di vista accettabile per tutto il neoclassicismo sempre piú innamorato del verso sciolto.

29 Si veda in proposito la Filosofia dell’arredamento di M. Praz, Roma 1945.

30 In cui pure, sotto lo stimolo contiano, affiora almeno l’idea di una passibile diversa mitologia. Concessione però bloccata idealmente dalla pagina già citata della Chioma di Berenice circa la religione cristiana (Abbozzo di una dedica delle Grazie in Opere, XII, p. 435).

31 In Lirici del secolo XVIII a cura di G. Carducci cit., p. 535.

32 Come ben si vede nel componimento omonimo di A. Paradisi (in Carducci, Lirici cit., p. 70).

33 Per la ricca cultura di Parma e per le precise influenze francesi, fra sensismo illuministico ed eclettismo classicista, si rimanda naturalmente all’opera di Henri Bédarida, Parma et la France de 1748 à 1789, Paris 1928.

34 Il Momigliano nel suo Gusto neoclassico e poesia neoclassica (in Cinque saggi, Firenze 1945) lo ricordò fra i «semplici ripetitori» del Savioli, considerandolo neoclassico solo in questa sua parziale esperienza.

35 Il tema del pudore è chiamato a limitare gli spunti piú sensuali in accordo con l’affermarsi della verecondia neoclassica e le espressioni piú audaci vengono d’altra parte giustificate da citazioni dei classici, cosí come il Rezzonico autorizza, in altra direzione, neoformazioni lessicali con parole composte greche e con la generale avvertenza che la lingua italiana è suscettibile piú di ogni altra della tinta greca (Opere, Como, Ostinelli, 1815-1830, III, p. 110).

36 È una tipica storia neoclassica delle arti figurative con il culmine in Raffaello e Poussin (piú ricco di «bellezza ideale») e con la limitazione consueta di Michelangelo (erede, come Dante e Petrarca, dei «biliosi e malinconici» etruschi) ammirato però – con una concessione interessante a suggestioni preromantiche e con l’aspirazione al grandioso, insorgente in questo côté neoclassico anche sulla base di una eredità di Arcadia solenne e manieristicamente robusta – per il suo «pennello terribile». (E cosí pure interessante per le esigenze di un neoclassicismo che vuole edle Einfalt und stille Grösse, ma accentua sempre piú il termine di grandiosità, di maestà sublime anche come robustezza e vigore plastico, è la incerta ammirazione per Caravaggio di cui si loda la forza e si condanna il realismo senza decoro). Piú tardi il contatto con le opere del Canova (grecizzato da lui in Neodomo!) acuí nel Rezzonico (che si fece accurato ed estatico descrittore del gruppo di Venere e Adone in una lettera assai notevole al Bettinelli) una particolare sensibilità a quell’incontro di purezza e di calore, di marmoreo e di morbido «come la carne vivente» che i neoclassici di primo Ottocento (dalla Teotochi Albrizzi allo stesso Foscolo) sentirono – con evidente scambio di aspirazioni e realtà – come esemplare superamento di una frigida linearità, di un’immobile bellezza. Cosí il Rezzonico nel Viaggio di Sicilia e di Malta (1793-94) all’odiato barocco gesuitico e al Bernini poteva contrapporre la «greca semplicità» del Canova, non immobile, ma tale da lasciar riposare estatico l’occhio e da far raccogliere l’anima nella fruizione di sentimenti celesti (Opere, ed. cit., V, p. 54 ss.). E a quella luce fantasticò persino sulle mediocri prestazioni di danzatrice e di «statua vivente» della futura lady Hamilton (Opere, VII, pp. 245-249). Il gusto neoclassico si può verificare del resto utilmente in tutte le sue descrizioni di viaggi e, se piú deciso appare in quelli piú tardi in Sicilia e nell’Italia meridionale, dove piú duro è il giudizio de’ «mostruosi capricci» del barocco e aperta è la meraviglia che tali opere potessero sorgere nella vicinanza di templi e teatri greci di cui «lagrimando contempla gli avanzi», Opere, V, pp. 201-202 (e in cui sogna – pur chiamandoli «sogni d’infermo» – di rivedere feste e spettacoli archeologicamente ricostruiti, Opere, VIII, p. 223), non manca di rivelarsi neppure in quel Viaggio in Inghilterra (1787-88) che è documento della sua ammirazione per l’Inghilterra (ammirazione anche della condizione politica inglese che lo porterà ad indicare la «degenerazione» della rivoluzione francese nella mancata adozione del sistema bicamerale inglese), tutta riveduta, quanto a direzione estetica, attraverso essenziali canoni neoclassici (unità e varietà, natura idealizzata) che riducono la stessa attenzione ai paesaggi, ai giardini (tipico elemento del gusto preromantico) e al loro pittoresco (comunque meno vivo poeticamente che nel Bertola del Viaggio sul Reno) nei limiti ben saldi di un piacere mai disordinato ed istintivo, in un quadro che sempre mette in primo piano l’ultima mano classicistica (alla Pope ed oltre) che dissemina i giardini di falsi sepolcri classici, di iscrizioni classicistiche. E se notevole appare l’apertura del Rezzonico di fronte al gotico, il paragone con lo stile greco è sempre pronto a scattare e a far prediligere chiese ed edifici settecenteschi di gusto neoclassico. Si veda ora il volume di F. Ulivi, Galleria di scrittori d’arte (Firenze 1953), in cui sono dedicate alcune pagine (pp. 296-302) al Rezzonico come rappresentante di una interpretazione paesistica sub specie figurativa, artisticamente piuttosto scadente, ma indicativa di un gusto. E penso che ciò sia tanto piú vero proprio perché il Rezzonico vedeva, nei suoi viaggi, attraverso sostanziali schemi neoclassici piú che in una sensibilità pittoresca e sentimentale preromantica, che tanto diversamente si realizza artisticamente nelle pagine pure figurative del Bertola.

37 Opere, II, pp. 201-202.

38 Quante volte il Rezzonico invita i poeti «bramosi di vivere oltre la tomba» a non stancarsi di ripetersi l’avviso oraziano Vos exemplaria graeca nocturna versate manu versate diurna e quante volte gli stessi titoli delle sue poesie sono nobilitati con la traduzione in greco! E persino nell’arredamento egli saluterà con gioia il fatto che «sulla fine del secolo le cinesi stravaganze abbiano ceduto il luogo alla greca delicatezza, tal che degne di Menandro, di Pericle e di Augusto sian le ricche supellettili che a Parigi, a Londra ed a Roma segnatamente si lavorano per la delizia e per comodo della vita». (Opere, I, p. 150).

39 Molto interessante in tal senso è la lettera al Bernieri da Napoli (3 febbraio 1795, Opere, X, p. 159) contro i «ciechi adoratori del facilismo»: «Lo stile qui chiamato di Lombardia si rigetta, come troppo studiato e difficile; non si conosce la lingua, non l’artificio e il meccanismo del verso, non l’atteggiamento greco o latino, non si lodano che i versi da colascione, le frasi plebee, le immagini piú triviali, la fluidità come dono inapprezzabile delle Muse. A Roma si gusta l’intonazione lombarda e siamo riguardati a buon titolo come i veri poeti che adornino l’Italia, ma Napoli non pensa cosí...». E decisivo per la lontananza del gusto neoclassico dall’esempio metastasiano è il severo giudizio del Rezzonico, che considera il poeta cesareo come corruttore della poesia italiana ch’egli «affranse ed effeminò di soverchio», «ammollendo ogni eroico carattere ed eunucando la poesia per adattarla ai numeri dei maestri di cappella ed alla gola de’ gorgheggianti spadoni e delle insidiose teatrali serene» (Opere, V, pp. 48-49). Sí che, se egli ammette di «adorarlo» là dove merita, respinge il «suo culto universale», il suo «facilismo», e scrive un dramma per musica Alessandro e Timoteo tentando di unire «le forze e la magia di tutte le arti», ma eliminando gli «abusi» del melodramma e imitando i greci nella nobiltà e potenza degli effetti.

40 Il Ragionamento corrisponde però nello svolgimento del Rezzonico anche al piú deciso momento della sua adesione al condillachismo (come ha giustamente visto C. Calcaterra nel suo saggio La letteratura italiana veduta da un condillachiano, in Il Barocco in Arcadia, Bologna 1950, pp. 343-371) e alla sua pragmatica interpretazione della nostra letteratura in vista di una poesia filosofica. Ma (come avviene in ben altre condizioni di forza e di cultura letteraria nello svolgimento del Parini) quella rigida posizione ideologica si smussa in pratica a favore di un maggiore distacco estetico e, mentre supera le condizioni del classicismo arcadico, per la stessa fase avanzata in cui il Ragionamento appare, questo è pur fortemente nutrito di chiari elementi neoclassici, che ne volgono le punte al di là della semplice poetica illuministica.

41 E si pensi al Commento alla chioma di Berenice in cui il Foscolo dava certo una ben diversa profondità a quel «cielo» da cui il poeta toglie il meraviglioso, ma poi nello studio del poemetto callimacheo molto insisteva sulla poeticità della materia astronomica rivissuta nei suoi effetti di mirabile nella poesia antica.

42 Il Rezzonico non ebbe forte contatto con il preromanticismo piú deciso e semmai derivò conforto alle sue cadenze piú languide e sognanti (oltre che dall’equivoco Gessner) da quel «rigagnolo di poesia inglese» (che il Giovio indica, nelle Memorie premesse alle Opere, I, p. 4, come mischiato «con avvedutissima sobrietà» alla «limpidissima vena» tratta dai fonti greci e latini fin nella sua prima attività) che ebbe in comune con il Mazza, ma di cui sentí il pericoloso impulso a «rinnovare il Seicento» e di cui rilevò piú prudentemente certi motivi di entusiasmo per l’armonia (Dryden) o di meditazione romita e malinconica, come nel Penseroso di Milton che egli tradusse con notevole efficacia.

43 Opere, II, p. 22.

44 Tensione che va collegata (come ho indicato nel saggio introduttivo al volume L’Arcadia e il Metastasio) alla posizione montiana nel Discorso preliminare al Saggio di poesie del ’79 e alla stessa polemica alfieriana del Parere sul Saul in favore di una poesia varia, immaginosa, ardita e contro il secolo «tanto ragionatore e niente poetico».

45 La riaffermata adesione all’Arcadia ufficiale supera un’avversione ben chiara alle «arcadiche quisquilie» fra le quali il Rezzonico non vuol pubblicare il poemetto astronomico e si collega alla riaffermazione di temi solenni e retorici d’ascendenza guidiana e filicaiana, come la grandezza dell’Arcadia con la sua missione civilizzatrice romana e cattolica, come la guerra contro i turchi in cui il Rezzonico vede ingenuamente lo sbocco salutare della bellicosità europea dopo lo scoppio della rivoluzione francese (mentre sperava nel commercio come pacifico unificatore dell’Europa, Opere, IV, p. 123).

46 Opere, II, p. 51.

47 Opere, II, p. 144.

48 Opere, II, p. 100.

49 Opere, II, p. 98.

50 Opere, II, p. 124.

51 Opere, II, p. 183.

52 Né mancano, in questo cultore dei classici e dei miti, spunti di polemica contro l’abuso della mitologia e la fiducia eccessiva nel suo valore insostituibile (v. Ragionamento cit., in Opere, VIII). Ma in realtà questi spunti rimasero senza vera applicazione (v. in proposito P. Pesenti, L’arte e la scienza in un arcade celebre, Roma-Milano 1909, pp. 40-41) e si legano, su di un piano intenzionale, al desiderio di una nuova poesia capace di creare nuovi miti, adeguati a nuove esigenze storiche e spirituali e al riflesso di motivi illuministici cosí forti nel citato Ragionamento.

53 Opere, III, pp. 172-173.

54 Il Rezzonico, che pure non mancò di tributare elogi piú aperti al suo superbo vicino e che d’altra parte piú volte rivela nel suo epistolario la boria e l’invidia del Mazza raffigurandolo «vate» che «pettoruto pavoneggia» sulle orme di Milton, ne definí il significato ed il limite, quando gli riconobbe «una certa inquietudine poetica e un certo ardimento che lo rende se non altro fenomeno e meteora letteraria» (Opere, X, pp. 68-69).

55 Per l’abbandono da parte del Mazza della piú diretta fedeltà al Frugoni, si veda il saggio di C. Calcaterra, La mutazione di Angelo Mazza, in Il Barocco in Arcadia (cit., pp. 115-127), in cui si precisa però l’incapacità del Mazza di rappresentare piú che «uno stadio progressivo del frugonianesimo». In realtà, pur negli echi ineliminabili del maestro e nella simile impostazione eloquente, egli portava fermenti nuovi (anche se confusi e irrealizzati artisticamente) ed esigenze legate ad una crisi entro lo sviluppo neoclassico, e quindi mal riducibili a un puro e semplice svolgimento della poetica frugoniana.

56 Piú spesso in quelle poesie la ricerca di un linguaggio sensibile ed edonisticamente perspicuo dà luogo ad espressioni particolarmente goffe che rivelano la sua difficoltà a raggiungere eleganza e finitezza al di là del suo sforzo di originalità e di concentrazione: «ha colmo il sen tornatile» (Il Talamo).

57 Opere di Angelo Mazza, fra gli Arcadi Armonide Elideo, Parma, Paganino, 1816-1820, vol. II.

58 In una lettera dell’11 dicembre 1792 a Teresa Bandettini (la leggo nel copioso epistolario di vari alla celebre Amarilli Etrusca, nel vol. 647 dei manoscritti della Biblioteca governativa di Lucca) il Mazza rifiutava di scrivere versi che non trattassero «suggetti morali e metafisici, a’ quali ho da quindici anni conformato la mente e la fantasia per modo che a comunale argomento egli è impossibile ch’io mi riscaldi».

59 Nel 1795 a Firenze questo nucleo centrale fu raccolto in apposito volume dal titolo Versi sull’armonia. E in un’ode, stampata a premessa del volume, Giovanni Rosini lo chiamava «primo inimitabile cantor de l’Armonia» e lo distingueva dagli anacreontici e savioliani come poeta cui «non ricerca l’animo / dolce tremor lascivo», poeta che tenta «perigliosa altezza» e i cui «armonizzati numeri» sono «gravidi di senno».

60 Un accenno alla sincerità religiosa del Mazza e agli stimoli preromantici attivi nella sua tensione al sublime e al grandioso, nella sua sensibilità agitata e lontana dall’equilibrio del periodo classicistico-illuministico, si trova nelle pp. 245-247 del mio Preromanticismo italiano, 2a edizione.

61 Nella storia del neoclassicismo si devono ben calcolare, oltre ai legami con il manierismo di origine carraccesca (si veda in proposito il saggio di C.L. Ragghianti, I Carracci, nella «Critica», 1933, pp. 65 ss., 223 ss., 382 ss.) e con il classicismo poussiniano ripreso nell’eclettismo accademico romano (v. L. Hautecoeur, Rome et la renaissance de l’antiquité à la fin du XVIII siècle, Paris 1912), la generale relazione con il barocco (v. J. Schlosser-Magnino, La letteratura artistica, Firenze 19633, p. 448 ss.), sulla cui complessità porta notevoli indicazioni il recente volume già cit. di F. Ulivi. Per quanto riguarda la letteratura appare assai desiderabile uno studio che precisi, su chiare premesse storicistiche (capaci di cogliere la novità e la graduazione di certi passaggi di gusto e cultura), il problema dei contatti e riprese originali di elementi barocchi nella fase «barocchetta» d’Arcadia e di quel «complesso» del barocco che è particolarmente interessante in questo côté del neoclassicismo «grave e sublime». E si tenga conto in proposito di una linea settecentesca già indicata dal Torti e delle nuove considerazioni critiche di C. Muscetta (introd. a Opere del Monti, Milano-Napoli 1953) per quel che riguarda alcuni aspetti della poesia montiana e certa sua grandiosità scenografica (anche se appare quanto meno bisognosa di limitazioni e precisazioni la possibile qualifica di «neobarocco»).

62 Le arti nell’Uguaglianza civile (curioso plaidoyer contro l’uguaglianza rivoluzionaria sconvolgitrice degli ordini voluti dall’armonia; né si apre qui un discorso che sarebbe assai complesso sulle relazioni del neoclassicismo fin di secolo in Italia con la situazione politica e l’urto rivoluzionario francese)

guidate da le grazie

d’ogni decenza altrici,

al retto al ver preparano

le industri imitatrici

i cuori...

(Opere, V, p. 176)

63 Agli uomini il cantor sacro ed a’ numi

caro le argive discorrea contrade.

Uomini fe’ di belve

che in uman volto erravano

il vate che col suon trasse le selve:

prese dolcezza i ferrei

petti e la gioia social gli aprí.

(Opere, V, p. 79)

64 Andrebbe meglio studiata la tematica delle rime arcadiche, anche là dove è piú caduca e irrealizzata, per meglio calcolare certe linee di continuità esterna (con possibili echi stilistici nella coincidenza dei temi) nella letteratura del secondo Settecento.

65 Di cui:

privilegia talor natura il petto

de’ pochi a imitar nati i pregi sui...

(Opere, I, 24)

Il senso della élite di privilegiati, di bennati (quante volte ricorre questa parola nel Mazza!), è tipico nel neoclassicismo che parla spesso di popolo, ma, ben diversamente dal pieno romanticismo, lo sente in realtà distante da quelle verità superiori e da quella realtà superiore della bellezza («le sembianze del Bello al vulgo ascose») che sono rivelate a pochi eletti e da loro mediate in maniera immaginosa. Anzi nel Mazza particolarmente il tradizionale orgoglio dei pindarici (che si compone con la sua naturale boria) si riflette anche in un continuo e fastidioso sdegno del vulgo.

66 V. Opere, I, p. 44.

67 All’aura armonica, in Opere, III, p. 22.

68 V. Opere, I, p. 250.

69 Anche la danza è sentita in questa direzione neoclassica e non manca un confronto nostalgico della danza moderna con quella greca in cui «le salme» in «volteggiar librate» eran capaci nel gesto di «scolpir come in cristallo / le parole dall’anima parlate» (Opere, II, pp. 64-65) e non eccitavano desideri disordinati ed impuri: dove si può notare anche la forte componente di moralismo del neoclassicismo del Mazza.

70 In una possibile e suggestiva raccolta di versi (o piú spesso di isolate immagini, specie nella direzione di un sentimento estatico e turbato della natura o di una sensibilità spirituale inquieta e vogliosa: «i voti spazii de lo scuro oblio», «i vani interminati aerei campi», «l’ampiezza interminata di cerulei mari», la «grande, greve, profonda, orribil notte», ecc.) sarà doveroso riconoscere quanto la nostra sensibilità moderna collabori in molti casi a questi equivoci incanti, come essi scadano nel loro contesto per lo piú farraginoso e senza densità, indicando un’iniziale tensione poetica incapace di realizzarsi e quasi bisognosa, anche nei suoi frammentari spunti, di essere risentita attraverso il precisato suono poetico di altre compiute realtà poetiche. Una lettura del Mazza per frammenti, versi e accordi isolati e per presentimenti foscoliani, è quella di F. Ulivi in Settecento minore (in «Paragone», aprile 1953; poi in Settecento neoclassico, Pisa, 1957), ricca di spunti interessanti, ma piuttosto arrischiata appunto nel rilievo e nella integrazione di un sensibile lettore novecentesco, e sforzata nella accentuazione della «inquietudine della carne», come sforzato appare il brevissimo accenno di A. Vallone (Dal Caffè al Conciliatore, Lucca, 1953, pp. 41-42) che insiste sul riaffiorare delle voci del sentimento in mezzo alla declamazione e indica, in forma troppo generica ed elogiativa, l’apertura dei versi del Mazza ad impeti e ad impressioni di paesaggio grandioso e libero. Né voglio qui insistere e portare esempi su questo aspetto piú noto della poesia del Mazza (e rimando in proposito ancora alle pagine citate del mio Preromanticismo), perché qui desidero soprattutto mostrare come la tendenza del Mazza al sublime e al grandioso si inserisca nelle linee generali della poetica neoclassica e in una sua particolare interpretazione di fine secolo.

71 Il Foscolo sentí la suggestione della poesia del Mazza nelle sue odi di adolescente (dopo la raccolta Naranzi), ma sono noti gli echi mazziani recuperabili anche nella sua produzione lirica posteriore, sino nelle Grazie a cui non mancarono stimoli da motivi e immagini delle poesie sull’armonia. Il Mazza, a sua volta, ricambiò l’attenzione del Foscolo alla sua opera e alla sua personalità (dichiarata in una lettera del 1807) elogiandone significativamente la capacità di «presentare un nuovo aspetto poetico all’Italia contaminata da tanta mediocrità» (Epistolario di U.F., ed. naz., II, p. 287). Il Foscolo poi, nel saggio steso in inglese dallo Hobhouse, dedicò importanti pagine critiche al Mazza (Opere, XI, pp. 203-206), di cui vide la caratteristica nel «saper rivestire con poetica pompa le immagini astratte».

72 Opere, III, p. 22.

73 Opere, III, p. 14.

74 Opere, III, p. 31.

75 Opere, III, p. 183.

76 Alla morte di T. Parnell, in Opere, III, pp. 56-57, 59-60. E non sarebbe difficile – se lo spazio lo consentisse – citare in appoggio lunghe sequenze di versi tratte soprattutto dagli inni e poemetti sull’armonia, dai lunghi frammenti del poemetto sul bello armonico o dalla Grotta platonica (v. ad es. Opere, III, pp. 134, 168-170, 190-191).

77 Lo sforzo di originalità del Mazza nella sua ricerca di effetti grandiosi e nuovi, meno curanti di purezza e di eleganza a favore di un’efficacia «sublime», è documentato nel suo lessico che accumula (piú di quanto avvenga nel Rezzonico, che pure tenta composti autorizzati dai classici: «nottintero», «gemipomo» ecc., e applicazioni di linguaggio scientifico e filosofico), nella sua eloquenza vaticinante, calchi classici, riprese di forme dantesche e neoformazioni da queste e da quelli stimolate («attesorato», «centreggiare», «onnifica voce», «retto-consigliante», «ogni-cosa-veggente», «infragile», «melodiale», ecc. ecc.), in relazione anche ad un linguaggio platonizzante e scolastico-tomistico accolti in un confuso eclettismo evidentemente non solo linguistico, ma ideologico, tipico della crisi di fine secolo in un ambiente inizialmente illuministico, sensistico e dotato, per una possibile reazione antiilluministica, di strumenti logori di una vecchia tradizione scolastica. Naturalmente, in uno studio augurabile sul lessico della poesia settecentesca, la tendenza della lirica filosofica e mistica entro schemi neoclassici presuppone l’identificazione e del linguaggio arcadico (specie nella direzione «alta») e di quello classicistico dal Salvini in poi, con le riprese e gli stimoli di quello del Chiabrera e dei chiabrereschi.